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Musei Civici di Arte Antica
Comune di Ferrara

L’allestimento come “proporzione ed unione delle parti”


 

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Museo Riminaldi
 

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L’allestimento come “proporzione ed unione delle parti”
Angelo Andreotti

Il gusto per il collezionismo di Giovanni Maria Riminaldi, sicuramente ereditato dall’educazione del padre Ercole, è documentato dall’inventario dei beni mobili stilato dopo la sua morte, un inventario ricco e vario che, oltre a testimoniare un attivismo attento e raffinato nella raccolta, porta a chiedersi le ragioni per le quali nulla di quegli oggetti sia confluito nel Museo che ha così generosamente contribuito a costituire a Palazzo Paradiso. Certamente l’ostilità dei suoi concittadini, con qualche autorevole eccezione, e il degrado del Museo stesso che già in vita ebbe modo di constatare, non può bastare a giustificare questo comportamento, anche perché l’ultima donazione (Rogo di Savonarola) risale a pochi mesi prima della sua morte. Pertanto risulta più opportuno pensare a motivazioni più nobili, come per esempio il perseguimento rigoroso e cosciente di un’idea di Museo che prevedeva una cura delle acquisizioni accorta e per nulla frettolosa, che non prevedeva l’inciampo nell’improvvisazione o nel puro e semplice accumulo di oggetti.

Il Museo Riminaldi nelle sale di Palazzo BonacossiA riprova di questo concorre senz’altro la premura con la quale accompagnava gli oggetti con precise disposizioni di allestimento purtroppo perdute, o per lo meno non ancora rintracciate, con un’unica ma preziosa eccezione che raccoglie, fra l’altro, le indicazioni relative al tavolino di ametista sopra al quale doveva appendersi il mosaico con le colombe: «La sua altezza sia quanto porta la visuale orizzontale dell’occhio, perché si possa bene godere, e conoscere la finezza del lavoro; e quanto basti a lasciarvi il giusto spazio per attaccarvi sotto la Cartella dell’Iscrizione, che dovrà stare lontana dal tavolino per altezza circa un palmo. Per fermare al muro tanto il quadro, che la Cartella, si troveranno le sue attaccaglie parimente dorate, che non dovrebbero aver bisogno di alcun altro perno, che le sostenesse. Ciononostante però, essendo il quadro di Mosaico un peso di circa mille libre, sarebbe una cautela ben giusta di mettere sotto alla cornice due buone cavicchie, o siano perni di Ferro a piombo delle superiori attaccaglie, facendosi dorare le Teste per cuoprire la troppo semplicità del ferro. Tra il quadro, e la Cartella non si lascino, che pochi diti di muro, per darvi un certo tal quale giorno, che faccia un piacevole distacco, e non levi quel finimento, che deve venire a formare la detta Cartella, oltre l’altro oggetto di erudizione, e di memoria, che porta seco».

Quando Vincenzo Bellini (custode e direttore del Museo) tenterà una diversa distribuzione del tavolo e del mosaico mettendoli uno di fronte all’altro, Riminaldi parlerà di ignoranza per chi non vuol conoscere «che la bellezza delle fatture e dell’opere consiste nella proporzione ed unione delle parti, e facendo il tavolino basamento al quadro, non può separarsi senza distruggere quella parte che toglie all’uno ed all’altro il pregio, ed il bisogno della loro unione» (16.2.1782). È pleonastico aggiungere che Bellini dovette convincersene.
 
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